Oz vuol dire Forza

Amos Oz
UN RICORDO DI AMOS OZ

di SUSANNA NIRENSTEIN (La Repubblica 28/12/2018)

In ebraico Oz vuol dire Forza: forse il senso della vita e della grandezza di Amos Oz, scomparso all'età di 79 anni dopo una lunga malattia, sta forse proprio nel significato di quel cognome che assunse quando, quindicenne, decise di abbandonare Gerusalemme e la sua famiglia Klausner, una discendenza europea – Polonia, Lituania, Russia - di intellettuali sionisti di destra fuggiti dall'Europa dell'antisemitismo. “Forza” perché contrastava l'angoscia di suo padre (bibliotecario, studioso, sapeva 16 lingue) e quella di sua madre Fania (7 lingue, infinite letture dei classici, un cuore da esule) che morì suicida nel 1952, quando Amos aveva 13 anni, lasciandolo ferito per sempre, come ha raccontato nel suo capolavoro, Una storia di amore e di tenebra del 2002.

“Forza” perché nonostante la cupezza che lo circondava, da bambino voleva tutto, scatenato, giocando alla guerra con britannici e arabi su mappe larghe come la cucina, divorando libri come un lupo, blaterando di cose più grandi di lui e di sciocchezze, gridando e lanciando sassi per strada contro l'occupante inglese e costruendo razzi che avrebbero dovuto distruggere Buckingham Palace; “forza” perché, ragazzo, ardeva di sionismo utopistico e si sognava guidatore abbronzato dei trattori del kibbutz, dove, appunto, andò a vivere solo e adolescente (quando arrivò al kibbutz scrisse su un foglietto alcune decisioni cruciali che non avrebbe dovuto fallire, tra cui abbronzarsi entro due settimane, piantarla di chiacchierare tutto il giorno e di raccontare a chiunque i fatti tuoi, apparire come una persona taciturna: “l'abbronzatura riuscì benissimo” amava ricordare con la sua solita ironia).

“Forza” perché combatté nella guerra del '67 e in quella del '73. “Forza” perché sentiva che doveva costruire Israele, unica patria possibile dopo che l'Europa aveva vomitato e sterminato gli ebrei (“qualsiasi cosa succeda, meglio qui che nella diaspora, dove il futuro non dipende da noi, ma dagli altri” diceva). “Forza” perché quando decise che voleva scrivere, lavorava di giorno per il kibbutz Hulda e di notte si chiudeva seduto nel bagno con un foglio e la penna in mano pur di trovare la solitudine e dare spazio a quel che sentiva crescere dentro di sé, il potere della letteratura. “Forza” perché quando Shimon Peres gli offrì negli anni Novanta, nel pieno del difficile Piano di pace con i palestinesi, di entrare in politica, rifiutò: “Ho un handicap”, gli rispose, “non posso pronunciare le parole No comment”.

“Forza”, perché, e lo dice la sua risposta a Peres, è la stata la voce critica di Israele dall'occupazione della Cisgiordania in poi: fondò Pace Adesso proprio nel '67, senza mai smettere però di ribadire la natura aggressiva della guerra araba che aveva portato all'invasione, e dunque anche le ragioni di Israele: una per tutte, sulla questione del Muro tra Israele e i territori dell'Autonomia palestinese, lui si dichiarava a favore, visto il terrorismo, diceva però, con una buona dose di idealismo, che la barriera difensiva si sarebbe dovuta costruire più accostata ai confini prebellici, la famosa linea verde.

Quando lo si incontrava quella forza emanava dal suo bel viso e dagli occhi chiari e calmi, sentimentali, generosi. Era nato nel 1939 a Gerusalemme. Studiò filosofia all'università ebraica. Nel 1961 il quotidiano Ha'aretz dava notizia che sarebbe stato lui il direttore di un nuovo settimanale politico contro l'establishment laburista, Nel 1965 uscì il suo primo libro Terra dello sciacallo, che ebbe una discreta risposta – fino ad allora la letteratura israeliana si era mossa soprattutto sul piano dell'epopea sionista, questa serie di racconti, narrando di storie private e di kibbutz, si infilava invece sul terreno più intimo di una serie di protagonisti in crisi in un microcosmo che aveva l'ambizione di cancellare la solitudine, un mondo su cui è tornato più volte, anche di recente con Tra amici.

Dopo la pubblicazione del primo titolo Amos Oz chiede al kibbutz di avere un po' più di tempo libero per scrivere, gli danno un giorno; quando ne chiede un secondo il segretario gli risponde: “tu potrai anche essere un Tolstoj, ma se qui tutti si sentono artisti, chi le munge le mucche?”. Nel 1968 esce, stupendo, Michael mio, una relazione difficile tra un marito e una moglie a cui fanno da sfondo la Gerusalemme (sempre presente, di abbagliante bellezza, un magnete per i profeti, i lunatici, i messia di ogni sorta, in tutti i suoi romanzi) e gli inquietanti anni della Guerra di Suez: all'indomani del successo, di giorni liberi, visto che i proventi delle vendite dei libri finivano nelle casse del kibbutz, Oz ne ottenne 5 (in uno almeno doveva lavorare nella mensa comune).

Da allora Oz divenne parte dell'iconografia sionista: lo scrittore kibbutznik, il Sabra della coscienza politica, scrisse David Remnick in bel ritratto sul New Yorker. Si sposò con Nili, incontrata al kibbutz, ebbe due figli. Furono gli anni del Monte del cattivo consiglio, di Soumchi, di Una pace perfetta, della Scatola Nera, indagini continue, testarde sul suo tema più amato, sul mistero che voleva svelare, la famiglia, sui legami d'amore indivisibili, sul matrimonio, elegie sulla scomparsa della vecchia guardia israeliana che affondava le sue radici nel socialismo dell'Est europeo e cercava di rifondarsi immersa in mille difficoltà e mille speranze, meditazioni sull'ineluttabilità della morte, sui rapporti profondi tra genitori e figli, sulle donne che diceva sempre di non capire abbastanza anche se le studiava, le rivoltava, ci entrava e ne usciva come un segugio nel bosco. La grazia della sua scrittura sempre inarrivabile, evocativa eppure dannatamente concreta.

Non scrisse mai un romanzo sulla guerra però, nonostante avesse servito nel '67, in mezzo al Sinai, con un'unità di carristi, e durante la Guerra del Kippur sul confine siriano: “mi è difficile parlare o scrivere di un campo di battaglia, disse in un'intervista, non credo che potrei comunicare quest'esperienza a qualcuno che non l'ha vissuta. Lo scontro consiste soprattutto in un orribile odore. Non è immaginabile. Un misto di gomma, di metallo e di carni umane che bruciano. E merda. Qualsiasi descrizione non dia conto di quel fetore e della paura non serve a niente. Io non posso”.

Ma tutto ciò che riguardava la guerra e la pace era nel suo cuore. Il suo pensiero emerse subito dopo il '67 con un articolo sul Davar (un giornale socialista ormai chiuso). Era intitotalo La terra dei padri: chiedeva negoziati immediati, l'occupazione avrebbe corrotto gli animi degli israeliani, diceva. Da allora, certo con delle sfumature, ha sempre sostenuto la soluzione dei due stati, a quei tempi considerata radicale. Ed anche negli ultimi tempi era quella la visione che aveva: niente stato binazionale, siamo due nazioni che ambiscono allo stesso fazzoletto di terra, come due famiglie che dovessero occupare la stessa casa: non resta che farne due appartamenti ben divisi. Ci vuole coraggio, sosteneva, bisogna che qualcuno si assuma la forza (ancora la forza) di essere chiamato traditore, come Ben Gurion che alla fine della guerra di Indipendenza contrattò dei confini non ottimali, come il generale De Gaulle che lasciò l'Algeria. Non ho paura di essere chiamato traditore, aggiungeva, sono in ottima compagnia. E in effetti, insieme a David Grossman e A.B.Yehoshua, sono stati gli israeliani graditi a un'opinione pubblica internazionale sempre molto critica verso Israele.

Nell'86, Amos Oz e sua moglie lasciano il kibbutz: uno dei figli è asmatico e ha bisogno di un clima secco. Si trasferiscono nel deserto, a Arad. Ogni mattina Oz, scivola sulla pietra chiara in una passeggiata solitaria. Poi scrive, a penna, su un leggio, come Hemingway, per il mal di schiena. Il pomeriggio smonta quello che ha buttato giù e lo riscrive. E' lento. Ogni parola, in questa lingua che ha le radici nella Bibbia, ha un peso. Ogni parola ha mille assonanze. Lui vuole tempo.

E' il momento di Conoscere una donna (1989), gran bel romanzo su un agente segreto che si trova di fronte alla morte della moglie, Fima; Non dire Notte, Una pantera in cantina, Lo stesso mare. E poi il più grande, Una storia di amore e di tenebra (2002), la storia della sua vita di cui si diceva stesse scrivendo il seguito. Speriamo di poterlo leggere. Da quel momento tutti si sono aspettati che ricevesse il Nobel. Ma il pregiudizio verso Israele a Stoccolma è stato troppo grande. Di premi comunque ne ha avuti a bizzeffe, alla faccia della Svezia, anche il premio Israel, il più importante tra quelli conferiti dallo Stato.

I suoi titoli sono ancora tanti, molti altri romanzi, non ultimo Giuda, uno tra i più densi, molti saggi. Soprattutto era fiero di Contro il fanatismo, che definiva come la tendenza degli estremismi a voler cambiare gli altri, una malattia che sì attecchiva nella sua terra ma si espandeva dovunque, compresa l'Europa, continente verso cui conservava il risentimento di un figlio di profughi. Sì, non si è mai scordato da dove veniva. E ha sempre scritto della commedia umana all'ombra del confine. La sua è stata davvero una storia di amore e di tenebre. E anche di bellezza, poesia, coraggio. Forza. Che la terra gli sia lieve.
_______________________________

Statale, laurea honoris causa ad Amos Oz: "La vera letteratura è provinciale"

IN VETRINA

Vivi nascosto...

Il rogo che avvampò tutta notte...

LA MEMORIA DELLO STERMINIO