L'intelletto di Spinoza


Baruch Spinoza, rappresentazione artistica
        Per Dio intendo un Ente assolutamente infinito: cioè una Sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna ed infinita.
     Spiegazione: Dico infinita assolutamente, e non nel suo genere: infatti a un ente qualsiasi, infinito soltanto nel suo genere, non possiamo sostenere che manchino infiniti attributi; ma all’ente che è infinito assolutamente compete un’essenza alla quale, invece, è proprio tutto ciò che esprime un essere e che non implica alcuna negazione.      (Etica, Parte I, def. 6)
In Spinoza si pone il problema di trovare un ordine causale oggettivamente radicato nella realtà e, per capire ciò, dobbiamo fare alcuni riferimenti – anche se un po’ cursori – alla metafisica spinoziana, incentrata su una definizione cardinale (l’Etica dimostrata alla maniera geometrica si configura appunto come un trattato in cui l’etica è spiegata come la geometria, attraverso definizioni, corollari, ecc): tale definizione è quella del concetto di sostanza: Spinoza dice che per substantiam intelligo id quod in se est et per se concipitur, ovvero sostiene che la sostanza è ciò che sussiste autonomamente e non ha bisogno di altro per essere compresa, è cioè del tutto autosufficiente sia sul piano ontologico sia su quello gnoseologico; per usare una terminologia che sarà propria di Gioberti – che pure si richiamava a Spinoza – potremmo dire che la sostanza è "un primo ontologico" e "un primo logico".

Tale definizione implica che la sostanza sia causa sui, cioè è essa stessa che si causa e ad essa pertiene quell’attributo che la tradizione teologica ha sempre riferito soltanto a Dio. E infatti una delle identificazioni che Spinoza opera a proposito della sostanza è di identificarla con Dio, tant’è che la prima parte dell’Etica reca come titolo "De Deo" (la seconda identificazione sarà invece della sostanza con la natura). Dire che è causa di se stessa equivale a dire che la sostanza non ha nulla fuori di sé che la condizioni e che le impedisca di dipendere solamente da sé; essa comprende tutto ed è perciò infinita, senza confine alcuna che la limiti: anche per questa strada, pertanto, si arriva a dimostrare l’identità tra sostanza e Dio, in precedenza argomentata passando per la definizione di sostanza come esistente autonomamente.

In secondo luogo, Spinoza ritiene di poter affermare che questa sostanza non ha attributi, ovvero qualità essenziali che ne fanno parte e che non sono accidentali (se c’è la sostanza, necessariamente ci sono anche tali qualità) e a tal proposito Spinoza dice che queste qualità sono ciò che l’intelletto percepisce della sostanza: questa affermazione è già una spia di una determinata direzione di ragionamento, giacchè se l’intelletto coglie le qualità della sostanza vuol dire che esso coglie gli attributi di Dio ed è perciò, senz’ombra di dubbio, la facoltà suprema. Tali attributi – prosegue Spinoza – sono infiniti, perché appunto propri di una sostanza infinita, e così come di Dio non conosciamo tutto, anche della sostanza non possiam conoscere tutti gli infiniti attributi, bensì ne conosciamo solamente due: il pensiero e l’estensione. In realtà, non vi è alcun luogo in cui Spinoza giustifichi ciò, anche se lascia sottinteso che sono gli unici due attributi di cui noi partecipiamo ed è appunto in forza di ciò che possiamo conoscerli.

Pensiero ed estensione non sono quindi sostanza (come invece credeva Cartesio), ma attributi di un’unica sostanza che esiste in maniera autonoma. Già Cartesio aveva detto – riprendendo la definizione data da Aristotele – che la sostanza è ciò che per esistere non ha bisogno di null’altro all’infuori di sé; però poi – influenzato dalla prospettiva di Tommaso – diceva anche che sostanze erano anche quelle cose che per esistere non hanno bisogno di null’altro all’infuori di Dio (e il pensiero e l’estensione erano appunto tali, dipendenti dalla res divina). Spinoza critica duramente questa correzione di sapore tomistico apportata da Cartesio alla definizione aristotelica: è sostanza solamente ciò che esiste autonomamente, senza bisogno di nulla, neanche di Dio, con la conseguenza che pensiero ed estensione non sono sostanze, bensì attributi dell’unica sostanza.

Successivamente, Spinoza afferma che gli attributi sono qualità essenziali della sostanza e, per ciò, non sono accidentali; ma tali attributi possono manifestarsi in diversi modi, e tali modi non sono più attributi essenziali della sostanza, ma sono piuttosto qualcosa di estrinseco ad essa e possono essere in un modo o in un altro: così come il colore dei capelli rispetto alla sostanza "capelli" è qualità essenziale; ma poi posso acconciare in svariati modi i capelli e tali acconciature non sono parte intrinseca dei capelli (possono essere infatti in un modo o in un altro, senza intaccare l’essenza dei capelli stessi). Perciò Spinoza asserisce che i modi sono "in altro" rispetto alla sostanza, intendendo con ciò dire che non le sono essenziali, come invece sono gli attributi. Da ciò deriva conseguentemente che, se ci sono due attributi della sostanza (pensiero ed estensione) e sono infiniti, essi si manifesteranno in una infinità di modi, e i modi che discendono dall’attributo del pensiero sono le idee, mentre quelli che discendono dall’attributo dell’estensione sono i corpi.

E’ chiaro, allora, che tutto ciò che noi vediamo è interno alla sostanza, sicchè noi vediamo uno degli infiniti modi in cui essa si articola: "tutto ciò che è, è in Dio" (proposizione XV); ci troviamo con Spinoza dinanzi ad un monismo assoluto, in cui tutto ciò che è, è determinazione di questa sola sostanza; e d’altra parte "dalla necessità della natura divina devono seguire infinite cose, secondo infiniti modi"; dalla sostanza discendono cioè infinite serie di modi, ma noi possiamo conoscerne solamente due, la serie dei corpi e quella delle idee, giacchè partecipiamo solo di esse. Sono necessari perché tali modi in cui la sostanza si manifesta negli attributi non costituiscono un mero processo emanativo, ma piuttosto un processo di tipo causale: l’emanazione a cui ricorreva Plotino per spiegare la derivazione del reale dall’Uno è rigettata da Spinoza, poiché ai suoi occhi non rende adeguatamente conto della successione causale; infatti – tenendo a mente l’esempio plotiniano della fonte luminosa che irradia la luce, si può sì dire che tale fonte è causa della luce, ma, dopo di che, la catena causale si interrompe.

 Al contrario, secondo Spinoza, all’interno dell’attributo dell’estensione avrò una successione di corpi dei quali i precedenti sono causa dei successivi e così via; mi trovo cioè con una catena causale che a partire dalla sostanza scende a tutto il resto. Dire che pensiero ed estensione sono due qualità essenziali di un’unica sostanza equivale a dire che essi sono le due facce di una stessa medaglia e, di conseguenza, l’ordine causale dell’estensione sarà lo stesso ordine causale del pensiero, anche se tale ordine sarà guardato da due diversi punti di vista (ora da quello del pensiero, ora da quello dell’estensione); la natura, quale appare ai nostri sensi, discende da un’articolazione causale e necessaria interna alla sostanza stessa, e ciò significa che ad ogni corpo corrisponde necessariamente un’idea. Scrive Spinoza a tal proposito: ordo et connectio rerum idem est connectio idearum.

L’ordine causale fa quindi parte della manifestazione di Dio e tutto ciò che vediamo in natura o nel mondo del pensiero non è che Dio stesso che si estrinseca necessariamente in quest’ordine causale: ciò tuttavia non toglie che Egli sia libero, giacchè per Spinoza libertà e necessità non confliggono, ma anzi – sulla scia dello stoicismo – la necessità è la libertà con cui si segue la propria natura necessariamente. Da ciò deriva che la libertà d’arbitrio è per l’uomo azzerata, egli non può agire diversamente da come agisce e non ha perciò senso pentirsi delle proprie azioni; in merito, Schopenhauer dirà: natura non contristatur. Tutto questo discorso permette a Spinoza di riconoscere alla causalità una dimensione assolutamente oggettiva (essa fa infatti parte dell’essenza divina), e perciò la conoscenza procederà causalmente (torna valido il motto scolastico scire est scire per causas), ma questo conoscere procedente per cause può essere di più tipi, nel senso che innanzitutto può essere adeguato o inadeguato, può cioè essere "errato" o "corretto"; infatti, quando parto dalla conoscenza sensoriale, parto dalle affezioni che il mio corpo subisce dall’esterno, e quindi conosco le affezioni del corpo, ossia gli effetti e non le cose che afficiunt il corpo.

Per risalire alle cause, devo indovinare, risalendo dall’effetto alla causa ricercando, tra le cause possibili, quella che può essere giusta, senza tuttavia disporre di criteri sicuri (come già notavano Hobbes e Vico) e perciò mi muovo nel vago, e ho soltanto la memoria che mi dice che in altri casi l’effetto X era stato causato dalla causa Y e che crea un’associazione di idee; ma in questo modo, il rischio di sbagliare resta elevato. Questo vuol dire che finchè mi limito a risalire dall’effetto alla sua probabile causa avrò sì una conoscenza causale, ma inadeguata in quanto non certa; l’adeguatezza consisterà invece nello scendere dalla causa all’effetto e, per far ciò con un certo criterio, occorre ch’io abbia punti di partenza, nozioni considerabili come punti di avvio e non effetti di altre cause; partendo da essi e scendendo agli oggetti, ho conoscenza adeguata.

Tale è il caso del procedere scientifico, che parte da notiones communes (le definizioni di retta, di forza, di corpo, ecc) da cui mi è possibile derivare tutto: nella prima parte dell’Etica Spinoza dice che tutti i corpi hanno "nozioni comuni", ma successivamente arriva ad estenderle anche alle idee e viene così a dire che si può dare spiegazione scientifica perfino delle passioni (ed è questo l’obiettivo dell’opera), che sono, alla pari dei temporali che funestano il cielo, causate da cause precise. A scendere dalle cause agli effetti è – secondo Spinoza – la ragione, quella facoltà specifica dell’uomo consistente nel saper derivare gli effetti da quelli che per ogni scienza sono considerati i princìpi. Naturalmente, la ragione procederà in maniera discorsiva, passando di causa in causa, di anello in anello; ma le cause prime (notiones communes) sono tali solo se riferite alle singole scienze, non in assoluto: così il moto è causa prima della meccanica, ma non della realtà nel suo insieme, sicchè se ne evince che anche il moto è a sua volta causato.

Lo stesso dicasi per tutte le altre "nozioni comuni", che provengono tutte da un’unica causa: la sostanza stessa. Ci dovrà allora essere una terza e superiore forma di conoscenza oltre alla sensibilità e alla ragione, una forma di conoscenza che non parta dalle notiones communes, ma dalla vera causa prima (Dio) e vede tutto il resto come conseguenza di tale causa; e, per compiere questo salto, occorre ragionare non più discorsivamente, poichè non c’è alcun ragionamento scientifico capace di dimostrare che le notiones communes derivino da Dio. Ci vuole dunque un salto intuitivo e a tale compito è preposto l’intelletto, riconosciuto da Spinoza come la più alta forma di conoscenza, capace di afferrare intuitivamente Dio.

Dopo aver colto intuitivamente l’unità assoluta, l’intera realtà può a sua volta esser colta con un solo sguardo dell’intelletto, che vede l’intera serie causale considerata come un tutt’uno, riesce cioè a considerare l’intera realtà come prodotta direttamente e immediatamente da Dio: la vedo così come la vede Lui, le cose non sono più considerate nella loro determinatezza spazio/temporale, ma sotto l’aspetto dell’eternità (sub specie aeternitatis). Spinoza è dunque il primo pensatore moderno a distinguere nettamente l’intelletto e la ragione, assegnando al primo la funzione di cogliere intuitivamente Dio, alla seconda di passare discorsivamente dalle cause agli effetti.
Baruch Spinoza, rappresentazione artistica
Dei tre livelli in cui si articola la conoscenza, il primo (quello sensibile/immaginativo) risulta inadeguato, in quanto risale dagli effetti alle cause, restando perciò nel vago. Al secondo e superiore livello si parte invece dalle nozioni generali proprie delle singole scienze e si procede discorsivamente attraverso la ragione. Nel terzo livello, infine, si parte da Dio stesso colto intuitivamente. In uno scolio dell’Etica (scolio 2, proposizione 40, parte VI) Spinoza scrive: "da quanto detto sopra risulta chiaramente che percepiamo molte cose e formiamo nozioni universali che traggono origine da diversi elementi attraverso i sensi in maniera mutila, confusa e senza un ordine" e, dopo aver detto ciò, descrive i tre livelli conoscitivi.

A proposito del primo, egli riconosce come si articoli, propriamente, in due diversi momenti: quello della sensazione e quello dell’immaginazione. La componente sensibile è "mutila" poiché i sensi non ci forniscono mai conoscenza completa, ci danno sempre solo affezioni delle cose sui corpi; di conseguenza, da queste affezioni si può risalire alle loro cause solamente attraverso un processo immaginativo di associazione mnemonica di idee (si parte da un segno – fonetico o grafico – per poi arrivare ad un significato, risalendo dagli effetti alle cause). Su questo punto Spinoza precisa che cosa è la memoria: essa "non è che un certo concatenamento di idee implicanti la natura delle cose", è un concatenamento causale che avviene sulla base di concatenamenti precedentemente esperiti dal corpo: così sento sulla mia pelle che il fuoco brucia, e nelle occasioni future la memoria mi suggerirà di non toccare più il fuoco. Ma tale concatenamento non può dirsi oggettivo, giacchè può sempre accadere che si passi da un dato effetto ad un’errata causa, ossia ad una causa che non ha prodotto tale effetto: ciò avviene perché la memoria ci suggerisce inadeguatamente quel concatenamento, cosicchè la conoscenza sensibile è inadeguata perché brancolante nell’incerto. Con un esempio piuttosto efficace Spinoza chiarisce questo punto: immaginiamo delle orme di cavallo lasciate in riva al mare; se le vede un soldato, penserà immediatamente alla guerra e ai cavalieri, ma se le vede un contadino, quest’ultimo penserà invece alla campagna e al lavoro agreste. Così di fronte ad uno stesso effetto si può risalire a cause diversissime (e sbagliate). Ciò dimostra che il concatenamento che procede empiricamente dall’effetto alla causa non può essere mai fonte di una reale ed oggettiva conoscenza per causas.

Il secondo livello – prosegue Spinoza – è quello della conoscenza di tipo razionale, in cui si discende dalle nozioni comuni di ogni singola scienza agli effetti; tale livello ha il grosso limite di partire non già dalla causa prima assoluta, ma da cause prime relative alle singole scienze; ma ha anche il vantaggio di procedere non dall’effetto alla causa (come avveniva invece per il primo livello), ma dalla causa all’effetto. Il terzo livello, infine, muove dalla causa prima assoluta (Dio) intuitivamente e di qui rilegge l’intera catena causale dell’universo con un colpo d’occhio.

Il terzo livello costituisce la conoscenza migliore, poiché è la conoscenza che Dio stesso ha delle cose ed è difficilissima da raggiungere: "il supremo sforzo della mente e la sua suprema virtù è conoscere le cose con il terzo genere di conoscenza"; quanto più l’uomo conosce con l’intelletto, tanto più afferma se stesso come realtà, perché si identifica addirittura con la res divina. Possiamo leggere in tale funzione dell’intelletto una sorta di ascesi sia morale sia metafisica (oltrechè gnoseologica), e ciò avviene anche perché Spinoza ha un concetto piuttosto ambiguo di "mente": da un lato, essa è un’idea che – come tutte le altre – corrisponde ad un corpo, cosicchè la mente così intesa è idea particolare di un corpo particolare (un "corpo in atto", dice Spinoza); però, dall’altro lato, giocando sul fatto che la mente può anche essere considerata come idea della mente in generale corrispondente all’idea di corpo in generale si può pensare ad una mente non singolare, ma infinita e, sotto questo aspetto, la mente umana non è più individuale, bensì è un individuale momento della mente infinita di Dio, e perciò può conoscere l’intero processo casuale che presiede all’universo. Se la nostra mente riesce a compiere questo sforzo e a diventare mente di Dio, essa riuscirà a conoscere – almeno in parte – l’essenza stessa di Dio e vedrà perciò tutte le conseguenze che derivano geometricamente da tale essenza divina, anche se di attribuiti noi riusciamo a coglierne solamente due (l’estensione e il pensiero): se si riescono a cogliere quei due attributi nella loro esistenza in Dio, allora la mente capirà che tutti i corpi sono derivazioni di tale estensione divina e le idee derivazioni di tale pensiero divino.

Quando la mente umana coincide con quella divina conosce le cose dal punto di vista di Dio, conoscendole cioè come Dio stesso le conosce; il che genera un’incontenibile gioia intellettuale nella mente umana. Per capire tale sentimento, dobbiamo brevemente ripercorrere il concetto di laetitia e di amor in Spinoza. A suo avviso, esistono due tipi fondamentali di passioni: la laetitia e la tristitia, innanzitutto intese nel loro significato etimologico legato alla vita agreste: dicesi laetus il terreno fertile e la laetitia è appunto uno star bene perché rigogliosi, il sentire affermata la propria virtus; all’opposto è la tristitia, che indica primariamente un depauperamento della virtus, e l’uomo è fluttuante tra queste due passioni, sentendosi ora realizzato nel suo esistere, ora depresso e limitato nella sua espansività vitale.

Può poi capitare che tali passioni siano legate all’idea di una causa esterna, come quando sono allegro perché c’è il sole splendente: in questo caso, quando cioè la laetitia è legata ad una causa esterna, si ha l’amor; similmente, quando la tristitia è in connessione ad una causa esterna si ha l’odio. Con questo terzo livello di conoscenza l’uomo raggiunge l’apice di laetitia, sentendosi perfettamente in possesso del suo essere (si sente coincidere con la res divina), e perciò proverà il massimo amore possibile per Dio (amor Dei), un amore che passa per questa terza via conoscitiva di tipo intellettuale e che quindi sarà un amore intellettuale: amor Dei intellectualis, dove il genitivo è sia soggettivo sia oggettivo. Sono io che amo Dio (genitivo oggettivo), ma nella misura in cui capisco che Dio coincide con me (e con la natura: Deus sive natura) è Dio che ama me (genitivo soggettivo) e le cose circostanti. 

Con Spinoza ci siamo quindi imbattuti in uno dei pochi pensatori – prima dell’idealismo – che distinguono nettamente due tipi di conoscenza che avvengono secondo due diversi strumenti: la conoscenza intuitiva (che avviene grazie all’intelletto) e quella razionale (che avviene grazie alla ragione), con una radicale inferiorità della seconda sulla prima. Quella di Spinoza è, se letta in trasparenza, una posizione del tutto peculiare, sia perché prima di lui nessuno distingueva l’intelletto dalla ragione sia perché chi anche aveva operato tale distinzione (ad esempio Pascal) si era ben guardato dall’attribuire alla funzione intuitiva la prerogativa di attingere direttamente all’assoluto; se infatti consideriamo il modello pascaliano, notiamo facilmente come per il filosofo francese, fatta la distinzione tra una ragione che procede discorsivamente e un cuore che invece si muove intuitivamente, non si possano mai conoscere se non cose prettamente umane, e in nessun caso il cuore può raggiungere conoscenze assimilabili a quelle che ha Dio. La concezione spinoziana – nella quale l’intelletto può cogliere intuitivamente l’assoluto – tornerà alla ribalta nel Romanticismo prima e nell’Idealismo poi.
Baruch Spinoza, rappresentazione artistica

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