La fine è già qui

Baruch Spinoza
Da un breve articolo di  Giulio Busi...

COME INTUIRE IL DIO DI SPINOZA

Vitrea, perfetta, scintillante d'intelligenza, la prosa di Baruch Spinoza sembra intagliata con un bulino nel cristallo della ragione. Un capolavoro di concisione. Ma non tutti l'apprezzano. «In nottata tento di leggere l'Etica di Spinoza: mi interrompo a metà, provo disgusto. Sono soltanto parole, parole e nient'altro. La realtà è muta». Quando prende in mano il capolavoro spinoziano, lo scrittore ungherese Sándor Márai (L'ultimo dono. Diari 1984-1989, Adelphi) è in una stanza d'ospedale, al capezzale dell'amatissima moglie, ormai in agonia.

Da un lato il confronto disperato con la fine, dall'altra le dimostrazioni filosofiche architettate more geometrico: il contrasto non potrebbe essere più forte. Cos'ha da dire, l'Etica, sugli ultimi istanti? «Sono in molti a comprendere soltanto tardi – continua Márai – che il mistero più grande, nella vita, non è la morte, bensì il morire. E ogni ars moriendi è pura fantasticheria, un'arte simile non esiste». Eppure, proprio l'Etica, fredda e impersonale fin che si vuole, si può interpretare come una grandiosa ars moriendi, arrischiato itinerario dal contingente verso l'imperituro. Un viaggio provocatorio, quello di Spinoza, scacciato dalla Sinagoga e mai approdato alla Chiesa, il primo pensatore moderno a vivere, e felicemente, al di fuori di un'appartenenza religiosa. Come arte del morire, l'Etica non è affatto lacrimosa. In obbedienza al principio ispiratore di tutto il suo pensiero, il filosofo di Amsterdam scrive per affrancare se stesso e i suoi lettori dalla paura. È l'antica lezione epicurea, che mira ad abbattere la superstizione, amica suadente e terribile di chi si affanna «per gli incerti beni della fortuna, e fluttua miseramente tra speranza e paura». Passo dopo passo, un teorema dopo l'altro, l'Etica si proietta verso gradi di conoscenza sempre più rarefatti, fino alla vetta dell'«amor Dei intellectualis».

Patrizia Pozzi, che ha dedicato una bella monografia alla «scientia intuitiva» di Spinoza*, descrive le tappe di una simile ascesa verso la beatitudine conoscitiva. Secondo il vecchio credo platonico, per sottrarsi alla dissoluzione la mente deve compiere il salto estremo. Morire per essere eterni è sfida annosa. Nel pieno Rinascimento – in Giovanni Pico della Mirandola – era morte dolce, per un bacio di Dio, o tra le braccia sensuali della Venere celeste. Baci metafisici fin che si vuole, ma pur sempre scoccati dalla personificazione della bellezza più alta. Amante mortifera, la pichiana Venere, tanto che «chi più intrinsecamente la vuole possedere... bisogna che dal corpo per totale separazione si separi». Non così per l'austero Baruch. Tanto bello e pallido (tale almeno lo tratteggiano i contemporanei) quanto alieno dalle metafore antropomorfe, e – si direbbe – schivo dei contatti fisici e degli erotismi di carne e di sangue. Chiuso nel suo rifugio nei sobborghi di Amsterdam, vicino al cimitero ebraico sefardita, Spinoza campa tornendo lenti. Tra le sue dita, diafane e sapienti, anche la filosofia si smussa, si assottiglia. Non più dee che baciano i fortunati, ancorché morituri aspiranti all'eternità, ma la mente che vuole afferrare il riflesso di un supremo autoerotismo.

L'amore intellettuale di Dio, a cui si giunge per scienza intuitiva, dopo aver superato le pastoie della ragione, si rivela così parte di quel più smisurato amore con cui Dio ama se stesso. Beninteso, «Dio» vale qui l'ordine armonico della natura, e non il Dio biblico, o qual si voglia principio personale. Ma si dà amore senza persona? Senza gelosia, corruccio, nostalgia, finitezza? Chi ama cosa? Il filosofo solitario, fin troppo intelligente, ama la propria perfetta intelligenza?

«Non lo turba la fama, quel riflesso / di sogni nel sogno di un altro specchio / né il timoroso amore delle fanciulle». Nei versi di Borges su Spinoza, il ritmo batte, malinconico, sull'amore muliebre, titubante, caldo, e irrimediabilmente bandito dalla pagina spinoziana. Principio d'imperfezione e finitezza, e pure cifra di umanità. L'esatto contrario di quello che Baruch desidera. Lui vuole un'eternità che non venga a braccetto con la morte. La vuole qui, subito, non nell'aldilà ma nella conoscenza piena, definitiva. «Lo porta il tempo come porta il fiume / una foglia nell'acqua che declina». Anche per Spinoza, in fondo, l'ars moriendi è una tautologia. Perché la fine è già qui, abita la mente, e la mente dimora in essa. Basta solo saperla trovare. E riuscire a capirla.
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* Patrizia Pozzi, Visione e parola. Un'interpretazione del concetto spinoziano di «scientia intuitiva». Tra finito e infinito, Franco Angeli, Milano, 2012.
Baruch Spinoza

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