Grandiosa malinconia

Albrecht Durer: Melencolia I
Ma tra malinconia e spleen quanti poeti nati sotto Saturno

di Valerio Magrelli


Molti anni fa, invitato a tracciare una sommaria mappa del concetto di depressione, iniziai dal suo remoto sinonimo: melanconia. Dietro l’ espressione usata ai nostri giorni, si cela infatti una nozione che traversa la storia della medicina, per investire l’etica, l’estetica e la religione. Quel che oggi definiamo calo di tono o abbattimento del regime psico-fisico, nasconde cioè una genealogia millenaria, come si legge nel saggio Saturno e la malinconia di Klibansky, Panofsky e Saxl. Al loro studio, che spazia dalle teorie ippocratiche a quelle neoplatoniche, va accostato Nati sotto Saturno, in cui Rudolf  e  Margot Wittkower approfondirono il nesso con l’idea rinascimentale di Genio. Intesa come erede della melanconia (ossia della “bile nera”), la depressione si rivela dunque assai diversa da un semplice disturbo nervoso. In una tradizione che passa dal medico greco Galeno alla scienza araba, per approdare all’Europa del Quattro-Cinquecento, proprio al più sciagurato fra i quattro umori del corpo umano veniva associata la produzione dei massimi frutti dello spirito. «Perché», si chiedeva Aristotele, «gli uomini che si sono distinti nella filosofia, nella vita pubblica, nella poesia e nelle arti sono melanconici, e alcuni al punto da soffrire dei morbi che vengono dalla bile nera?». Egli stilò una lista dei melanconici che includeva eroi e intellettuali quali Ercole, Bellerofonte, Eraclito e Democrito. Ed è proprio a partire da questi nomi che Agamben ha tratteggiato un’ideale prosecuzione dell’ elenco. In esso, dopo una prima ricomparsa tra i poeti d’ amore del Duecento, il grande ritorno della melanconia veniva fatto risalire all’Umanesimo, con Michelangelo, Dürer e Pontormo. Una seconda epidemia era poi individuata nell’Inghilterra elisabettiana di John Donne. Infine, un’ulteriore ondata melanconica colpiva il secolo diciannovesimo, annoverando tra le sue vittime Baudelaire (lo spleen), Nerval, De Quincey, Coleridge, Strindberg. «In tutte e tre le epoche», ha concluso Agamben, «la melanconia fu sempre interpretata, con un’ audace polarizzazione, come qualcosa di positivo e insieme negativo». Davanti a una famiglia così ampia (su cui lavorarono Jaspers e Biswanger, Freud, Abraham e Jung), resta poco da aggiungere, se non che scrittori come Proust o Beckett risulterebbero incomprensibili fuori del cerchio magico dell’ umor nero. Per non parlare poi di personaggi come l’Oblomov di Goncarov, la cui melanconia riannoda il suo antico legame con l’accidia, l’acedia monastica. Quanto alla narrativa italiana, ecco spiccare Fogazzaro e De Roberto, Pirandello e Brancati, per non parlare di Landolfi, Moravia e Berto, che a questa malattia dedicò il romanzo autobiografico Il male oscuro. Infine, almeno un poeta: Attilio Bertolucci, le cui esperienze cliniche si trasfusero nei versi della Camera da letto. Questo per dire come la depressione, così devastante sul piano psichico, possa talvolta tramutarsi in stimolo per la creazione, la riflessione, il pensiero.


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"Melancholia" di Cranach
[stralcio...]

Credo che la melanconia sia il mito più grandioso che, durante ventiquattro secoli, abbia elaborato la civiltà occidentale. Nessuno la eguaglia: né Apollo, né Dioniso, né Ermes, né Cristo (perché Cristo è “anche” un mito); nessuno ha la sua vitalità, molteplicità, inafferrabilità, forza di contraddizione; nessuno è così infinito. Il paradosso è che la melanconia sia nata in Grecia e si sia diffusa sopratutto in Europa: vale a dire in una civiltà che ha sempre cercato di espandersi, di dilatarsi, di conquistare o almeno di illuminare e possedere con l’ intelligenza tutte le cose dell’ universo. Forse è l’ombra dell’ attiva e brillante luce occidentale: a meno che la vera luce d’Europa sia proprio lei – la notturna, tenebrosa malinconia, con i suoi pipistrelli, le comete, i crogioli alchemici, le erbe magiche, i cani desolati. Subito, la melanconia si distingue per tre gesti: il mento sulla mano, il gomito sul ginocchio, l’ occhio che non vede, perché guarda dentro sé stesso, nei paesaggi dell’ anima. Col tempo assume molti nomi: melanconia, acoedia, taedium, tristitia, spleen, noia, depressione, psicosi maniaco-depressiva. In ventiquattro secoli, non ci ha mai abbandonato. Non sono mai esistite epoche che abbiano fatto a meno di lei: perché è malinconica la Grecia, quando un allievo di Aristotele annuncia che tutti gli uomini di genio sono malinconici: malinconici sono i conventi del Medioevo: malinconicissimi il sedicesimo e il diciassettesimo secolo, quando centinaia o migliaia di trattati la descrivono con precisione scrupolosa: malinconica una parte del diciottesimo secolo, della quale Watteau è il fiore: travolta e quasi distrutta dalla malinconia è la fine del diciottesimo e l’inizio del diciannovesimo secolo; mentre quello che noi chiamiamo moderno non è altro che malinconia portata all’ estremo. Malgrado le variazioni della storia, essa non è mai mutata: si è soltanto spostata da un estremo all’ altro di sé stessa, sostando qualche tempo per riprendere fiato. La melanconia non è affatto un sentimento o un intrico di sentimenti, ma una forza terribilmente oggettiva. Come scrive Starobinskij, essa è l’ erede, in noi, di quella che una volta veniva chiamata possessione divina. Se siamo malinconici, qualcuno ci possiede. Non sappiamo quale ne sia il nome: quello di un dio o di un demone, o un dio travestito da demone o un demone travestito da dio, o un luogo sconosciuto di noi stessi. Qualunque sia l’origine, una terribile forza ci assale dal di fuori. Siamo aggrediti; e in quell’aggressione lo spirito diventa corpo, il corpo diventa spirito. Un fatto mi sembra unico. Le definizioni cliniche e mitiche della malinconia sono quasi identiche: il medico antico e moderno scrivono su di lei le stesse parole pronunciate dal poeta, dall’ artista o dal mitografo. Quando la malinconia scende su di noi all’ improvviso, la nostra prima sensazione è di essere rinchiusi in un carcere. Il carcere non ha fori, o aperture, o finestre: non ci sono che mura, mura, altissime mura. Non c’ è nessuna via d’ uscita: nessuna via d’ entrata. Siamo lì, e non vediamo nemmeno una pietra, perché l’occhio è fisso verso il nostro interno. Eppure, dentro quelle mura chiuse, la malinconia non smette di sgorgare, di fluire, di inondarci, di farci parlare, talvolta delirare. La sua fonte è un luogo profondissimo che sta non sappiamo dove: ma certo molto più in basso di quello che siamo abituati a chiamare “inconscio”. Qualcuno lo chiama lo Stige nero. La penna vi affonda, si nutre di quel liquido vischioso e non si arresta mai di scrivere: migliaia e migliaia di pagine, assai più di quelle che ci ispirano le Muse. Come tutti i grandi miti, la melanconia è il luogo dell’ antitesi e della contraddizione. La melanconia è la passione della lentezza: il sole si arresta in cielo: ma anche la passione della velocità; tutto corre freneticamente, e noi non riusciamo mai a raggiungere quei perenni fuggiaschi che siamo noi stessi. Il melanconico è immobile come un monaco nella sua cella, e sempre in viaggio come gli aristocratici inglesi alla fine del diciottesimo secolo. è abbattuto e furibondo. La melanconia è nera e rossa: pesantissima e leggerissima – come diceva Leopardi, che la chiamava “noia” e scriveva che aveva “la natura dell’aria”: “tenuissima, radissima e trasparente”. Qualcuno si chiederà come sia possibile che cose tanto opposte posseggano lo stesso nome e la stessa natura. Ma l’ universo della mente umana non è retto da figure lineari o geometriche: ciò che lo domina sono grandi nodi vibranti di contraddizioni e di paradossi. Al tempo dei Greci, un dio regnava sopra i melanconici: Saturno. Da un lato, Saturno era stato l’ architetto del mondo: aveva inventato il tempo e l’ agricoltura: aveva regnato sulla terra nell’ età dell’ oro, quando una primavera eterna accarezzava i fiori nati senza semenza. Ma d’ altro lato, era stato un dio “odioso, superbo, empio, crudele”: cercava di divorare i figli, e Giove l’ aveva detronizzato, esiliandolo nel Tartaro e sotto il Tartaro, legato in catene. Il dio Saturno era un astro. Siccome era il pianeta più alto, dominava il sistema solare: ma era anche freddo, sinistro, bianco ed enigmatico; detestava gli esseri umani e mandava sulla terra una luce debolissima e fioca, suscitando la neve ed il ghiaccio. Nei corpi umani, Saturno esercitava il suo influsso sulla milza, dove si raccolgono gli umori della “bile nera”: la melanconia. Quando la bile nera è fredda, il melanconico diventa “torbido, indolente ed ottuso”. All’ improvviso, perde la facoltà di vedere. Come se qualcuno avesse spento un interruttore gigantesco, la luce lascia il mondo visibile. Qualsiasi cosa il malinconico guardi, è fissa, livida e spettrale: vuota come il guscio di una conchiglia o una casa bruciata dall’ interno. Il mondo è opaco, immobile, silenzioso: sembra che nessuno vi si sia mai mosso, o abbia cercato di ridere. La vita si è arrestata. Il cielo soffoca come la pietra di un sepolcro. Allora il melanconico perde ogni desiderio di vivere. Ogni scintilla si spegne nella sua anima. Tutto ciò che attrae gli altri non lo attrae: tutto ciò che amano gli altri lo infastidisce; la primavera lo annoia come l’ autunno, l’inverno e l’estate sono identici davanti ai suoi occhi. Sebbene esecri la propria casa, il melanconico vi resta rinchiuso come un prigioniero. Sta seduto in poltrona, senza fare niente, senza pensare ad altro che alla propria interminabile malattia. Ogni istante conosce il morso della noia. Quando la noia si lacera, egli è preda di sospetti, di paure, di terrori senza nome e significato: il suo nemico lo assale da tutte le parti: l’assedio non ha soste; e lui scoppia in lacrime, tanto il nemico – lui stesso – sembra prossimo alla vittoria. Ogni mattina, davanti allo specchio, vorrebbe tagliarsi la gola: se resiste, è soltanto perché sa che dopo la morte entrerà in un universo ancora più squallido. Non si ama, e pensa che tutti gli altri lo sospettino, lo detestino e gli preparino agguati. L’ altro polo della malinconia ha i colori del fuoco. Quando la bile nera è calda, il melanconico diventa “vivace e brillante”. La salute sembra tornare. Sebbene si tratti di un’ euforia opposta ed identica alla fase apatica, essa apre le porte della felicità. Quando il melanconico risanato si sveglia, scorge un raggio di sole penetrare dalle persiane: si alza, pieno di gioia, si affaccia alla finestra, mentre da lontano ascolta il rumore dei tram e dei clacson; ed ecco che il mondo intero, come diceva Baudelaire, «si offre con un rilievo possente, una nettezza di contorni, un’ammirevole ricchezza di colori». Non c’ è più traccia di monotonia né di freddezza. Tutto è lieto, allegro, vivace, percorso da un movimento e da un fremito: la luce bagna le cose; le forme si sciolgono nell’ immensa liquidità dell’ universo. Spesso, l’ euforia assume tratti dionisiaci. Le passioni avvampano: l’affetto e l’odio accendono il cuore: il desiderio erotico colma l’ animo: l’orgoglio, la loquacità, l’ira, il vino, l’esaltazione generano un entusiasmo, che assomiglia al furore che Platone attribuiva ai veri poeti. Con una velocità paurosa, e una specie di estasi lirica, il melanconico reagisce a tutte le sensazioni, e le impressioni. Quando la personalità si concentra in sé stessa, lo spirito è assalito dalla grazia divina, dalle visioni, dal dono dei vaticini. Quest’alternanza tra il nero e il rosso, tra la nera Melencolia di Durer (vedi immagine supra) e la rossa Melanconia di Cranach (vedi immagine supra), non ha mai fine. Il melanconico ignora la vita lineare e limitata degli altri esseri umani. Obbedisce al ritmo del ciclo: passa di continuo dall’abbattimento all’esaltazione, dal torpore all’ euforia, dalla desolazione all’ estasi, dall’ombra al colore. Non è altro che ondulazione e capovolgimento. 

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Un uomo come il melanconico, così polare e paradossale, non sopporta la vita degli altri uomini, dominata dal battito sempre uguale degli orologi. Non può soggiornare nel tempo. Tra gli antichi psicologi, si diffonde presto la convinzione che l’ esistenza normale – ammesso che esista – non è fatta per lui. Egli ha un altro destino. Un allievo di Aristotele afferma che tutti gli uomini straordinari sono melanconici: Marsilio Ficino ripete che Dio rivela soltanto ai figli di Saturno i misteri della terra e del cielo; Kant aggiunge che soltanto la melanconia è sublime. Spesso, si tratta di una condizione terribile. Mentre gli altri uomini sono protetti da una specie di equilibrio, il melanconico conosce ogni istante l’ alternanza, la contraddizione, la dismisura, lo squilibrio, la rottura, l’ eccesso: dolore interminabile, sovrumana felicità, disperato gelo, totale tenebra, totale luce. Vive nell’ ombra, col rimpianto dell’ età dell’oro, che talvolta riesce a scorgere: sosta sull’orlo di tutti i precipizi: cammina tra le voragini; ogni momento, corre il rischio di sgretolarsi e di andare a pezzi, come la più informe rovina. Forse, questo è il suo trionfo. Così i trattatisti, specialmente nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, cercano di salvare i malinconici dai pericoli che li minacciano. I loro rimedi sono deliziosi ed assurdi: le pietre preziose, tra le quali sopratutto il berillo, il topazio e il calcedonio; e caute tisane di valeriana, di menta e di camomilla. Dubito che il berillo e la valeriana potessero salvare Baudelaire dai terrori che comprimevano il suo cuore come un pezzo di carta. L’ unico vero rimedio è quello che Marsilio Ficino aveva proposto secoli prima: accettare sino in fondo, senza incertezze e senza ritegni, la vocazione della malinconia, vivendo in lei così profondamente da trarre dal proprio male le leggi e la salvezza del mondo. In un giorno di settembre 1926, Virginia Woolf si risvegliò alle tre del mattino. Sentì, vide un’ onda dolorosa che si gonfiava e si ritraeva nelle regioni del cuore, e la sballottava. L’ onda si sollevava, la innalzava, la gettava in alto, e si rovesciava terribilmente sopra di lei. A un tratto, vide una pinna misteriosa fendere il mare deserto e vuoto. Virginia Woolf comprese che l’ onda e la pinna erano il segno della mania depressiva che, quattordici anni più tardi, l’ avrebbe condotta al suicidio nella acque del fiume Oose. «Che orrore…sono infelice, infelice, infelice. Mio Dio, vorrei essere morta!…Ma perché provare questo? Lasciatemi guardare come l’ onda si alza. Guardo. Il fallimento…Il fallimento, il fallimento!…Spero di essere morta! Spero di non aver più che pochi anni da vivere! Non posso affrontare quest’ orrore». Virginia Woolf affrontò il doppio orrore dell’ onda e della pinna. Comprese che non poteva fuggire né evitare quei segni dolorosi. Doveva scendere in basso, sempre più in basso, cautamente, gradino dopo gradino, nel suo pozzo, nell’abisso della follia. Là niente la proteggeva contro gli “assalti della verità”. «Là, non posso leggere né scrivere. Ma esisto. Sono». Qualche anno più tardi, compose Le onde: forse il suo capolavoro, affrontando di nuovo le minacce della melanconia. Le onde e la pinna le ricordavano, come a un filosofo presocratico, il ritmo dell’ universo: apertura e chiusura, espansione e contrazione, morte e rinascita. Non c’ era altro. Quello che salvava la Woolf era appunto il ritmo delle onde, dove una volta aveva visto il segno angoscioso della mania depressiva. Tutto veniva accettato: lo strazio diventata unità, la discontinuità ritmo, il caos pienezza, la malattia psichica si dissolveva nel gioco della espansione e della chiusura. Non c’ era più orrore. C’ era luce: «eterno rinnovamento, movimento incessante che si innalza e ricade, cade e si innalza di nuovo».

IN VETRINA

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Il rogo che avvampò tutta notte...

LA MEMORIA DELLO STERMINIO